La volatilità rimane elevata sui mercati dei titoli del Tesoro statunitensi dopo l’impennata dei rendimenti registrata da luglio. Dopo aver superato solo di recente il livello del 5%, il rendimento del Treasury a 10 anni è sceso questa settimana a circa il 4,72%. A nostro avviso, la situazione sta cambiando a favore delle obbligazioni sovrane.
I rendimenti dei titoli sovrani sono influenzati da numerosi fattori
Nelle ultime settimane i rendimenti dei Treasury statunitensi, che influenzano il livello dei tassi d’interesse a più lunga scadenza sulle obbligazioni governative di altri mercati sviluppati, hanno risentito di diversi fattori. Il grafico 1 mostra i punteggi assegnati dal nostro team sul reddito fisso alle varie forze che concorrono a spingere i rendimenti dei Treasury US verso l’alto o verso il basso.
Secondo la tabella, i seguenti fattori stanno prendendo il sopravvento:
Offerta di Treasury US inferiore al previsto?
I cambiamenti nella politica di gestione del debito degli Stati Uniti sono generalmente informati e comunicati dal Tesoro statunitense attraverso il processo di rimborso trimestrale, intorno alla metà di ogni trimestre solare. L’annuncio fatto dal Dipartimento del Tesoro il 2 agosto di un aumento significativo dell’emissione di obbligazioni nel quarto trimestre del 2023 è stato uno dei fattori che hanno innescato l’impennata dei rendimenti dei Treasury decennali al 5% a fine ottobre.
Mercoledì, lo stesso Dipartimento ha dichiarato che, secondo le sue proiezioni, la recente ondata di nuove emissioni di debito a lunga scadenza dovrebbe rallentare nei prossimi mesi.
I mercati obbligazionari hanno registrato un forte rialzo, spinti dall’idea che la riduzione delle emissioni seguirà due percorsi distinti:
in primo luogo, le ultime pubblicazioni sui rimborsi trimestrali suggeriscono che le aste di Treasury a a 10, 20 e 30 anni saranno inferiori a quanto previsto.
In secondo luogo, il Dipartimento del Tesoro ha dichiarato che le dimensioni delle aste dovrebbero presto normalizzarsi, con solo un ulteriore trimestre (a partire da aprile) di incremento delle emissioni di debito a più lunga scadenza.
Con i deficit fiscali statunitensi relativamente elevati, i mercati sembrano confortati dalle notizie sulle prossime emissioni, che avrebbero potuto essere di gran lunga peggiori.
Segnali di indebolimento della crescita negli USA
La pubblicazione di mercoledì dell’indagine sui produttori condotta dall’Institute of Supply Managers (ISM) ha riservato novità sorprendentemente negative. Essendo uno dei migliori indicatori della crescita, questo sondaggio è molto importante e ha contribuito al rally di questa settimana sui mercati obbligazionari statunitensi.
Il calo dell’ISM è stato inaspettato. Il dato è sceso a quota 46,7 a ottobre dal 49,0 di settembre, con la componente dei nuovi ordini calata a 45,5. Questa riduzione annulla il miglioramento registrato negli ultimi mesi. A nostro avviso, questo rapporto mostra il chiaro impatto dello sciopero dei lavoratori del settore automobilistico e di una ripresa del settore manifatturiero più lenta di quanto inizialmente auspicato.
I commenti contenuti nel comunicato dell’ISM suggeriscono un quadro attuale più fiacco e lasciano spazio per meno ottimismo sul futuro, in linea con l’andamento del sentiment dei consumatori a ottobre.
La dichiarazione resa da una società di prodotti chimici e inclusa nel rapporto riflette l’opinione del nostro team multi-asset: “Economia in assoluto rallentamento. Meno ottimismo per il primo trimestre del 2024”.
Allo stesso modo, la componente occupazionale dell’indagine ISM è scesa di oltre quattro punti, suggerendo che la forza degli impieghi manifatturieri riscontrata nei recenti rapporti sulle buste paga non agricole potrebbe non trovare riscontro nella relazione sull’occupazione di ottobre, che sarà pubblicata il 3 novembre.
Un messaggio equilibrato dalla Fed
Come previsto, la Federal Reserve statunitense ha lasciato i tassi d’interesse invariati al 5,25-5,50% in occasione della penultima riunione del 2023 (la riunione finale si terrà il 12/13 dicembre).
Non ci sono state novità degne di nota né nel comunicato né durante la conferenza stampa di Jerome Powell. Il Presidente ha infatti mantenuto la linea dell’inasprimento dei tassi nominali, riconoscendo la forte crescita del terzo trimestre e la continua solidità dei mercati del lavoro.
Nel complesso, l’impressione è che i responsabili politici si aspettino che col tempo condizioni finanziarie e creditizie più rigide per le famiglie e per le imprese consentano alla Fed di raggiungere il suo obiettivo, andando a pesare sull’attività economica, sulle assunzioni e sull’inflazione.
La Bank of Japan abbandona il meccanismo di controllo della curva dei rendimenti
Questa settimana, la Bank of Japan (BoJ) ha compiuto un passo significativo verso la revoca della sua politica settennale di contenimento dei tassi d’interesse a lungo termine, estendendo il graduale smantellamento delle sue massicce e pluriennali misure di allentamento monetario e alzando bruscamente le previsioni sull’inflazione.
Il 31 ottobre il consiglio direttivo della BoJ ha deciso di consentire ai rendimenti dei titoli di Stato decennali di salire oltre l’1%, rivedendo per la seconda volta in tre mesi il cosiddetto meccanismo di controllo della curva dei rendimenti. Più precisamente, il livello massimo dell’1% per il rendimento a 10 anni è ora un “punto di riferimento” piuttosto che un limite rigoroso.
Il governatore della Bank of Japan, Kazuo Ueda, ha citato come fattore principale alla base della decisione il recente aumento, superiore alle aspettative, dei rendimenti dei Treasury statunitensi.
La debolezza dello yen, l’aumento dei rendimenti obbligazionari giapponesi e un’inflazione persistente hanno messo sotto pressione la BoJ, che ha deciso di ammorbidire alcuni punti saldi della sua strategia. La banca centrale ha mantenuto il tasso di riferimento a -0,1%. Inoltre, ha rivisto notevolmente al rialzo le previsioni sull’inflazione, affermando di aspettarsi un tasso core del 2,8% per l’anno fiscale 2024, a fronte dell’1,9% stimato in precedenza.
L’aumento dei rendimenti obbligazionari giapponesi e la debolezza dello yen rendono meno interessante per gli investitori nipponici la ricerca di rendimenti migliori all’estero acquistando, ad esempio, Treasury statunitensi – un aspetto che nella nostra scheda di punteggio esercita verosimilmente una pressione al rialzo sui rendimenti obbligazionari statunitensi.
Lieve contrazione del PIL nell’Eurozona
Per quanto riguarda l’Eurozona – dove l’aumento dei rendimenti dei Bund tedeschi è stato in parte determinato dall’incremento di quelli statunitensi – ci sono state notizie positive per le obbligazioni.
Stando agli ultimi dati sul PIL e sull’inflazione, siamo sempre più convinti che la Banca Centrale Europea abbia raggiunto il tasso terminale di questo ciclo di rialzo.
Il dato preliminare sulla crescita del PIL nel terzo trimestre ha indicato che l’economia si è contratta di un lieve 0,1% su base trimestrale (t/t), registrando quindi un lieve ribasso rispetto all’andamento orizzontale previsto dal consenso.
Nel complesso, il quadro generale rimane quello di un’economia stagnante piuttosto che il preludio di una vera e propria recessione.
Inoltre, vale la pena sottolineare che una contrazione dell’1,8% t/t in Irlanda – dove i dati sono solitamente volatili e non riflettono necessariamente il contesto economico sottostante – ha probabilmente falsato il quadro aggregato, sottraendo circa lo 0,1% al risultato principale. Rettificata per i dati irlandesi, la crescita del PIL dell’Eurozona nel suo complesso sarebbe piatta, in linea con le previsioni della BCE e con il tasso di crescita medio delle principali economie della regione.
Sembra che nella zona euro sia in corso un altro trimestre di stagnazione: il nostro team macroeconomico prevede che la regione eviterà la recessione, con una stagnazione dell’attività nel quarto trimestre per un tasso di crescita relativo all’intero anno 2023 dello 0,5% su base annua, seguito dallo 0,2% nel 2024.
L’inflazione dell’Eurozona scende sotto il 3%
Il miglioramento dei dati preliminari sull’inflazione dell’Eurozona per il mese di ottobre è incoraggiante e leggermente superiore alle aspettative. L’indice armonizzato dei prezzi al consumo (HICP) è sceso a ottobre al livello più basso dall’agosto 2021, passando dal 4,3% mensile di settembre al 2,9%, al di sotto delle attese de consenso Bloomberg del 3,1%.
I dati sono stati influenzati dagli effetti base dei prezzi dell’energia, dato che l’inflazione energetica ha registrato un’impennata del 6,6% su base mensile nell’ottobre 2022. Il calo dei prezzi dei carburanti alla pompa osservato il mese scorso è ascrivibile probabilmente alla riduzione dei prezzi del greggio nella prima settimana di ottobre prima dello scoppio del conflitto in Medio Oriente.
Un rallentamento dell’inflazione dei generi alimentari – scesa al livello più basso degli ultimi 17 mesi – ha contribuito al calo dell’inflazione primaria. Sebbene i prezzi degli alimenti seguano un andamento irregolare, questo dato potrebbe delineare una tendenza, in quanto l’inflazione alimentare potrebbe beneficiare della moderazione dei prezzi delle materie prime agricole e dell’energia da inizio 2023, che si sta ora diffondendo lungo la catena di approvvigionamento dei generi alimentari.
Anche le pressioni inflazionistiche sottostanti si stanno gradualmente attenuando, dato che anche il tasso core (che è il più rilevante) è sceso durante il mese dal 4,5% di settembre al 4,2% di ottobre. Sebbene le pressioni di fondo si siano attenuate, rimangono comunque troppo elevate per i gusti della BCE, che difficilmente taglierà i tassi prima del secondo trimestre del 2024.
Allo stato dei fatti, risulta complicato conciliare il rallentamento dell’inflazione core dell’Eurozona con mercati del lavoro ancora rigidi e una rapida crescita dei salari. Un ulteriore calo dell’inflazione dei servizi dipenderà dall’allentamento delle pressioni salariali. Sebbene la crescita delle retribuzioni possa davvero essere giunta al picco massimo, la relativa decelerazione potrebbe rivelarsi più lenta del previsto. Infatti, i lavoratori potrebbero sfruttare il loro potere contrattuale piuttosto elevato per ottenere notevoli aumenti dei salari nominali e recuperare il potere d’acquisto perso.
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