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Weekly market update – Più complessità in vista per politica e inflazione

Non è dato sapere quanto tempo servirà ancora per domare l’inflazione, motivo per cui la Federal Reserve (Fed) statunitense e la Banca Centrale Europea (BCE) hanno ribadito di voler proseguire con l’inasprimento monetario. Questo approccio potrebbe mettere in seria difficoltà i titoli azionari, in quanto gli operatori tendono a modificare le loro opinioni in base ai probabili percorsi di politica delle banche centrali e i rendimenti obbligazionari a breve termine hanno ripreso a salire. In Asia, invece, l’attuale ciclo è più incentrato sulla normalizzazione della politica monetaria che sul rialzo dei tassi per combattere l’inflazione. La crescita del PIL e i mercati finanziari della regione potrebbero quindi superare quelli occidentali.   

Da quando la Fed ha iniziato a inasprire la sua politica monetaria lo scorso anno, i settori sensibili ai movimenti dei tassi d’interesse hanno reagito in modo prevedibile: la costruzione e la vendita di abitazioni sono diminuite a causa dell’aumento dei tassi ipotecari, mentre la spesa dei consumatori per i beni durevoli e gli investimenti delle imprese hanno vacillato di fronte all’impennata dei tassi di finanziamento.

Con la normalizzazione dell’economia statunitense dopo lo shock del coronavirus, la domanda dei consumatori – soprattutto di servizi – si è ripresa trainando i prezzi, mentre le nuove assunzioni dopo la pandemia hanno favorito l’incremento dei posti di lavoro. Sia l’inflazione che la domanda di manodopera si sono quindi rivelate resilienti e persistenti.

Il proseguimento delle assunzioni ha fatto sì che il costo unitario del lavoro aumentasse del 6,6% su base annua (a/a) per l’intero 2022, rispetto al 2,1% del 2021 (si veda Grafico 1), mentre la produttività è stata corretta al ribasso dal -15% al -2,0% a/a. Non sorprende quindi che la Fed si preoccupi di un disancoraggio delle aspettative di inflazione.

Nel recente discorso al Congresso (7 marzo), il presidente della Fed Jerome Powell ha ribadito il suo approccio aggressivo di lotta all’inflazione, affermando che la forte domanda giustificherà tassi d’interesse più alti di quanto precedentemente calcolato, lasciando così intendere una possibile nuova accelerazione dei rialzi.

Sull’altra sponda dell’Atlantico, l’inasprimento monetario della BCE non sembra aver sortito l’effetto sperato in termini di raffreddamento della domanda o contenimento dell’inflazione nell’Eurozona. L’inflazione core è rimasta ostinatamente elevata, salendo del 5,6% a/a a febbraio dal 5,3% di gennaio, seppure a fronte di un calo del tasso primario all’8,5% dall’8,6% di gennaio.

Il fatto che l’inflazione core non accenni a diminuire, ma resti ben al di sopra del target del 2% della BCE lascia la stessa banca centrale perplessa e preoccupata. Perplessa perché, con la ripresa dell’economia della zona euro dalla crisi energetica dello scorso anno, il calo dei prezzi di petrolio e gas dovrebbe ripercuotersi sull’inflazione core di beni e servizi, ma non lo fa. Preoccupata perché un’inflazione core così alta e persistente alimenta il rischio di una spirale salari-prezzi, dato che il mercato del lavoro nell’Eurozona è ancora solido.

I mercati finanziari hanno quindi effettuato un repricing per tenere conto del nuovo tracciato dei tassi di riferimento delle banche centrali. Negli Stati Uniti, il tasso terminale sui fondi federali dovrebbe ora superare il 5%. Il tasso massimo della BCE per questo ciclo dovrebbe invece raggiungere il 4,0%. In Giappone, il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni sta testando il limite superiore del meccanismo di controllo della curva dei rendimenti della Bank of Japan (0,5%), riflettendo le aspettative del mercato di un aumento dei tassi d’interesse giapponesi.

La complessità dell’inflazione

Le prospettive sull’inflazione rimangono incerte sia per quest’anno che per il 2024.

Partendo dagli Stati Uniti, uno scenario prevede che l’inflazione continui a scendere verso il target del 2% fissato dalla Fed senza compromettere la congiuntura economica. Ciò richiederebbe un rallentamento della crescita del mercato del lavoro e dei salari. Secondo i dati recenti, la probabilità che questo scenario si concretizzi è moderata, all’incirca 25%.

Un’altra possibilità è che l’inflazione rimanga fissa al 3-4% nei prossimi mesi. Ciò metterebbe la Fed di fronte a un’ardua scelta: schiacciare l’economia per costringere l’inflazione a scendere fino al target, o aspettare di vedere se l’inflazione rallenta abbastanza da sola. Dalle ultime dichiarazioni di Powell sembra che la Fed sia disposta a sacrificare la crescita per far scendere rapidamente l’inflazione. La probabilità di questo scenario potrebbe essere del 50%.

Infine, i prezzi (core) potrebbero aumentare ancora nel corso di quest’anno e nel 2024, forse fino al 5%, poiché la forza combinata del mercato del lavoro statunitense e della riapertura dell’economia cinese potrebbe far lievitare l’inflazione di beni e servizi. Anche in questo caso, la probabilità di realizzazione dello scenario è del 25%.

Mettendo insieme tutte queste ipotesi si ottiene un tasso di inflazione atteso del 3,25-3,75% – ergo la Fed e le altre principali banche centrali non hanno ancora finito di aumentare i tassi d’interesse.

La cosa più importante è che non si tratta solo di una gamma di scenari, bensì di probabilità che variano su un breve periodo.

L’incertezza che ne deriva si manifesta nelle prospettive a breve termine sull’attività economica, sui prezzi e sulla politica monetaria, ma anche sui cambiamenti di lungo periodo nelle dinamiche strutturali, come la transizione verso l’energia pulita, i cambiamenti nei modelli della catena di approvvigionamento globale e la crescente regionalizzazione (guidata dalla Cina) che si scontra con la de-globalizzazione (guidata dagli Stati Uniti).

In assenza di forze recessive che tengano a freno l’inflazione, le aspettative del mercato sulla politica della Fed continueranno ad avere la meglio in termini di prospettive. Nel breve periodo, i toni sempre più aggressivi della Fed finiranno per offuscare le valutazioni dei titoli azionari e obbligazionari.

Il fattore Cina

A questo mare di incertezza si aggiunge la ripresa della Cina. I dati recenti mostrano che l’economia sta già godendo di un ottimo slancio. I PMI di febbraio hanno raggiunto massimi pluriennali, il volume dei pendolari in città è risalito ai livelli pre-Covid e le transazioni del mercato immobiliare stanno tornando ai livelli antecedenti la pandemia dopo una profonda contrazione.

Alcuni osservatori potrebbero chiedersi se la ripresa della Cina farà lievitare anche l’inflazione globale e quindi la pressione sulle banche centrali dei mercati sviluppati per aumentare i tassi d’interesse.

Non necessariamente: infatti, si prevede che il tasso d’inflazione cinese sarà di gran lunga inferiore a quello dei paesi sviluppati (si veda Grafico 2). Vero è che il fattore Cina è destinato a rimanere un catalizzatore della volatilità nei mercati globali.

Una cosa però è certa: la politica monetaria cinese è in controtendenza rispetto ai rialzi dei tassi apportati in Occidente. L’allentamento politico di Pechino rientra in una serie di cambiamenti fiscali e normativi coordinati, volti a rilanciare la crescita del PIL quest’anno e il prossimo.

L’Asia dovrebbe beneficiare della ripresa cinese. Con l’inflazione molto meno problematica in Oriente rispetto all’Occidente, l’approccio monetario nella regione è più improntato alla normalizzazione che all’inasprimento.

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